Gwen’s Redemption: Narrativa impegnativa – Capitolo 1

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Qui il capitolo 0

CAPITOLO 1

Tutta questa storia cominciò quando il mio capo ufficio mi chiese di scrivere un articolo dal titolo “Rapporti di forza nella società della Rete”.
In quel periodo lavoravo per un’agenzia di stampa che si occupava di scrivere articoli di cronaca e di attualità per alcuni quotidiani e riviste di tendenza e cultura alternativa.
Doveva essere un giovedì di marzo, forse sedici o diciassette, non ricordo bene. Il caldo primaverile si affacciava alle finestre; la luce intensa veniva trapassata da folate di vento freddo, prova che la morsa dell’inverno era ancora ben stretta. Si sentivano cantare i piccoli uccellini dal quinto piano del palazzo in cui lavoravo, stormi di volatili che danzano nelle fauci dell’aere liberi da ogni impedimento.
Mi trovavo nel mio piccolo ufficio, occupato nelle mie faccenducole: manda un fax a Berardi, ricordati del compleanno di Giulia. 
Ah! Fai gli auguri a tuo padre e la sua nuova moglie… è il loro secondo anniversario. 
A volte nel mio ufficio, seduto dietro la mia scrivania sulla mia comoda poltrona scura, chiudo gli occhi e dimentico tutti i miei impegni per qualche secondo, sognando di essere nel mezzo di quello stormo di uccelli, ovunque la corrente li portasse, beato di una vita spensierata.
E’il mio biglietto di sola andata verso un nuovo mondo.
Quel giorno fui disturbato da un cattivo presagio. Il mio capo entrò nel mio ufficio e mi disse “Senti, abbiamo una commissione per un giornale TalDeiTali, ci ha chiesto un articolo di quattromila battute su internet, i giovani d’oggi, insomma tutte quelle stronzate lì… tu che hai contatti, magari puoi far meglio degli altri. Ah, è per la fine della settimana, quindi vedi di sbrigarti, che ce lo pagano bene!”

Dovevo terminare una consegna, e avevo questa in lista d’attesa.

Faceva parte del mio lavoro.

Il mio lavoro. Non che non mi piacesse.
Mi ricordo di quando ero più giovane, pieno di speranza e voglia di cambiare il mondo, senza un’idea di cosa avrei voluto fare nella vita. 
Invidiavo quei compagni di università che avevano dei progetti a lungo termine, una passione da inseguire. 
O un sogno nel cassetto.
Io non avevo sogni. Speranza si, tanta. Ma non avevo uno straccio di sogno. Non riuscivo a scovare gli stimoli giusti dall’esterno, non riuscivo a carpire il segreto per una vita felice, serena.
Forse questo era il problema di tutta una generazione. La totale mancanza di stimoli.
Tutti avremmo voluto fare i calciatori, o gli attori del grande cinema. Io volevo fare il pompiere da bambino.
Ma nessuno avrebbe mai detto di voler fare l’agente immobiliare, o il direttore di una compagnia di materassi. O lo strozzino.
O il colletto bianco della Folletto, o il ragazzo precario da “call-center”. Le uova d’oro da quattro euro e mezzo l’ora.
Qualcuno voleva fare l’architetto o il medico. Non di certo andare di casa in casa cercando di vendere aspirapolveri.
Non so perché ma ogni volta che pensavo alla mia carriera mi veniva in mente il mare.
C’era una tempesta e c’era il mare.
E poi una zattera.
Pian piano finivamo tutti su questa cazzo di zattera. Questi erano i miei pensieri ogni volta che pensavo al mio futuro.
C’era una tempesta e c’era il mare. 
Ma poi la zattera affondava.
Tutti, lentamente, sorpresi, indifesi, dalle onde dell’inconoscibile annegando come poveri stolti.
Ne ho viste di tutte i colori nella mia vita: amici che abbandonavano l’università dopo due anni di finto studio, amici che non la cominciavano nemmeno, vagando in giro per il mondo alla ricerca del nirvana attraverso eccitanti, calmanti e sedativi.
Chi in quattro anni ha cambiato quattro volte facoltà.
Chi era obbligato a frequentare l’università a causa di forze maggiori.
Chi invece a qualche esame dalla laurea ha mollato tutto e si è fatto monaco tibetano.
La via dell’ascesi non faceva per me.
Questo era il punto: non sapevamo come avremmo fatto a vivere per i prossimi dieci anni senza una linea guida che ci indirizzasse verso la giusta destinazione. Tutto qui.
Se negli anni settanta lo scopo e il sogno era quella sensazione di vittoria sulle forze del male, quell’energia mista a fantasia e felicità che si poteva respirare in giro per i festival e nelle grandi piazze delle città, dove fiumi di persone danzavano in nome di un ideale chiamato pace, reclamando redditto, urlando e resistendo con armi leggere per una apparente libertà, nel nuovo millennio lo scopo diveniva trovare uno scopo.
Non sapevamo perché eravamo finiti lì in mezzo al mondo, ne sapevamo perché avremmo dovuto combattere in modo tale che la nostra vita assomigliasse sempre più a quelle del cliché da ragazzo copertina.
Ma una cosa era certa: non potevamo rincorrere i sogni perché non ne avevamo.
Cioè, non è che non avevamo sogni. E’ che non li avremmo mai potuti realizzare. Noi lo sapevamo.
Ed io non volevo finire a fare uno di quei lavori del cazzo per ritrovarmi a sessant’anni vuoto di idee e fantasie, prosciugato dei migliori anni della mia vita da una cazzo di scrivania.
Diciamo che non andò proprio così. Gli stimoli mancano tuttora, quelli veri. Ora ci sono altri generi di stimoli: le bollette, le assicurazioni, la spesa ogni settimana, l’affitto. Il nostro legame ai beni di consumo è diventato il nostro stimolo. La mera sopravvivenza è diventata il nostro scopo.
Stimoli che, diciamo la verità, avrei voluto evitare.
E nel bel mezzo della mia giovinezza mi ritrovai dietro una scrivania di una compagnia giornalistica, con tanto di targhetta patinata con su scritto il mio nome, intento a scrivere articoli di giornale da rivendere a caro prezzo alle riviste e ai quotidiani. 
Non che fosse una brutta scrivania.
Accantonai la vecchia commissione e cominciai a raccattare informazioni e materiale per quella nuova. Riguardo la nascita di internet, le sue istituzioni e il suo funzionamento, esistono una serie illimitata di siti web in grado di spiegarti tutti i perché ed i per come. Mi ricordai di aver conosciuto in un locale un ragazzo che studiava ingegneria informatica all’università di Roma – La Sapienza, non più di tre settimane fa. Quel giorno ci inoltrammo in una discussione sulla compravendita attraverso aste online, e sulla grande quantità di denaro che si poteva ricavare da ciò. Rimasi sorpreso dalla mole di nozioni che poteva risiedere in quel ragazzo. Era un esperto di informatica e mi disse che con un po di fantasia si poteva vivere vendendo cianfrusaglie su internet. Beh, pensai tra me e me, avrei potuto cominciare a vendere una serie di cose inutilizzate stivate con cura sotto il mio letto, accatastate lì da almeno due anni.
Mi lasciò il suo indirizzo email, così, per tenersi in contatto, nel caso mi servisse una mano.
Lo contattai dal computer dell’ufficio, chiedendo se ci saremmo potuti incontrare per scambiarci due parole, magari mi avrebbe potuto aiutare a reperire del buon materiale per la stesura dell’articolo davanti ad una birra fredda o un bicchiere di vino.
Quando tornai a casa mi accorsi che era presto, presto più del solito. La portiera era ancora lì sul ciglio del portone a spazzar polvere in preda a tendenze omicide, furiose ed ossessive.
Salii le scale, una rampa di scale che portava al secondo piano. 
Lì c’era la mia casa. Una piccola casa nel centro di Roma, nella zona di viale Trastevere. Dico c’era, perché ora non c’è più. Non era molto grande, ma era arredata con cura: una minuta anticamera faceva da ingresso ad un ampia stanza con parquet e mobili tutto proveniente dal catalogo Ikea duemilaquattro, con tendine in finta seta, tavolino in plexiglas con piedini richiudibili; la stanza in cui passo la maggior parte del tempo. Al centro della stanza c’era una scrivania, la mia scrivania in legno di frassino con tanto di cassettino porta oggetti, dove scrivevo gli articoli di giornale sul mio computer, guardavo la televisione e i telegiornali dal grande divano in fantasia “Brochure primavera duemilasei” attaccato alla parete che separava il soggiorno dalla camera da letto.
Beh, devo dir che sono un esperto di tendine e cataloghi stagionali. Compri per telefono una enciclopedia generale in dodici volumi della Treccani e ti ritrovi la cassetta della posta intasata da depliant di spazzole per capelli, depliant di cosmetici, annunci gratuiti per singles.
Offerte commerciali di ogni genere: apriscatole elettrici, lampade allo iodio e scatole in plastica conserva-cibo Tupperware. 
Una volta un tizio mi disse che era importante rispondere sempre negativamente all’ultima clausola del contratto, quella sulla divulgazione dei dati personali. La trovate lì, in basso sulla sinistra, solitamente di un carattere più piccolo rispetto al resto della pagina. Alla vostra domanda “Che dice l’ultima riga?”, il consulente esterno della ditta tal dei tali con il colletto bianco dalla camicia inamidata con tanto di targhetta “Il mio nome è Walter” ti risponderà che << Non è importante… è solo una stupidaggine sulla divulgazione dei dati personali… sà, noiose questioni legali. >>
Non credergli, mi disse.
E’ per dire quella frase che lo pagano.
Entri nella loro logica produttiva come un aspirante acquirente.
Venderanno a caro prezzo i tuoi dati personali a terzi, i quali a loro volta lo faranno a quarti.
E così via.
Diventi schiavo degli opuscoli di offerte commerciali di qualsiasi genere.
Per tutta la vita.
La grande macchina dell’industria conoscerà ogni tuo movimento, respiro, gusto.
Sarai uno dei suoi “Figli più promettenti”. Ti candideranno come “Primo Cittadino del Consumo”.
Non importa se il contratto non l’hai letto, ma all’ultima domanda rispondi sempre “No”.
Altrimenti ti ritrovi a quarant’anni a parlare di scatole e aspirapolvere.
Mia madre a volte partecipava a quelle noiosissime riunioni di sole donne, nelle quali davanti ad un caffè caldo sparlano dei mariti e comprano oggetti inutili per la casa. Tipo i vari utensili per la casa Tupperware.
Alla fine di ogni riunione scelgono la casa nella quale faranno quella successiva.
Per diventare membro della setta “scatole di plastica conserva-cibo” devi essere rigorosamente sposata. 
Infelice.
Due figli, tendenzialmente rompicazzo.
Avere un amante.
Avere delle corna. Quello aiutava.
Insomma essere una donna comune, come tante altre.
Se sei casalinga hai dei punti in più.
Puoi entrare nella sezione amministrativa e riunire le tue aspiranti amiche-consumatrici in casa tua.
Mi ricordo che ogni tanto quando rientravo in casa trovavo le madri dei miei compagni di classe, madri vestite di grandi firme con collier in oro e anelli di ogni tipo, che cercavano a tutti i costi di sembrare migliori delle altre. Madri che sparlavano di altre madri che sparlavano di altre madri, che a loro volta portavano rancore. Rancore che si liberava alla recita di fine anno dove il proprio figlio, primo della classe, era lì in prima fila a recitare la parte principale.
Ma la cosa più buffa era vedere mio padre che sgallettava tra le madri seducenti come uno scemo.
Una volta quando rientravo in casa posavo lo zaino, mi levavo le scarpe e andavo dritto in cucina speranzoso di trovare qualcosa di buono da mangiare. Sapendo che nulla poteva turbare la mia quiete familiare fin tanto che ci fosse stato qualcuno pronto ad occuparsi di me giorno e notte. 
Una volta rientrai in casa e dalla stanza dei miei genitori uscì la migliore amica di mia madre in compagnia di mio padre. Lui mi disse di non dir niente alla mamma, perché le stavano preparando il regalo di compleanno. 
Una volta quando tornavo da scuola sapevo che ci sarebbe stato qualcuno che mi avrebbe sempre aspettato quando sarei rientrato in casa, pronto ad accudirmi.
Almeno fin quando i miei genitori non divorziarono.
Poi ricordo l’amica di mamma uscire sempre più spesso dalla stanza dei miei genitori.
Quando cambiammo casa, io e mi madre e mia sorella, le cose cambiarono.
Rientravo in casa sapendo che mia madre piangeva. 
Non c’erano i soldi per mandarmi in gita scolastica, e quest’anno mi sarei dovuto inventare una scusa da dire al corpo docenti. Imparai a capire che tornato a casa non ci sarebbe stato nessuno che mi avrebbe aspettato, perché mia madre lavorava sino a tardi. Mia sorella non aveva ancora superato la seconda media, quindi, dovevo badare anche a lei.
In questo modo, credimi, cresci più in fretta. Sei già un uomo, l’infallibilità dei genitori crolla come un castello costruito sulla sabbia, portata via dal vento dell’ignoranza, vetrificata negli anni dalle delusioni.
Ora quando entro in casa, la mia casa, poso il mio cappotto lungo sull’appendi abiti, mi levo le scarpe e accendo la luce all’ingresso, una luce molto soffusa che riscalda la casa al solo premere dell’interruttore. 
Consapevole che nessuno mi aspetta, felice per una quieta serenità.

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