Sonnyboy – Narrativa distrattiva. Prima esibizione.

Questa non è altro che un piccolo racconto preso da una mia raccolta chiamata <<The Awake>.
Spero vi piaccia. 

Sonny. Questo era il suo soprannome. Si faceva chiamare così.
Era minuto, di carnagione scura, due occhietti piccoli come bottoni e due braccia esili.
E’ sempre stato trascurato, denutrito. Poverino.
Era nudo, non portava alcun tipo di vestito. Poverino.
Sorrideva. Sempre. Lo picchiavi, sorrideva. Lo maltrattavi, sorrideva. Lo insultavi, lo frustavi, potevi fargli qualsiasi tipo di cosa.
Lui avrebbe sorriso.

Si si, Sorrideva.
Lo trovai così, un po’ per caso, un bel giorno d’inverno.
Un giorno abbastanza caldo per essere nel mese di dicembre. Il sole era tramontato già da parecchio tempo, le strade erano affollate di automobili che andavano e venivano dal centro, dalle periferie.

 

Chi tornava dal lavoro, chi andava alle poste, chi invece guidava verso il centro della città, con l’intento di guardar vetrine e, semmai, far qualche pensiero per Natale. La corsa ai regali era cominciata qualche giorno prima.
Mi trovavo dentro il grande magazzino Ikea, a fare le mie compere di Natale.
Le noiose compere di Natale. Cosa regalo a mia madre? Cosa a mio padre? Quale trapunta si adatta alla personalità di mia sorella? Quale lampada da comodino sarebbe compatibile con il carattere di mia cugina, al livello di persona-oggetto , intendo.
Da Ikea puoi comprare di tutto.
Mobili per ufficio “Mikael”, armadi per camere da letto in legno marrone nero. La serie “Billy” quest’anno andava di moda.
Letti a castello in legno truciolato che durano non più di due anni, pentole, piatti, posate, lampade alogene multicolore, lampade in carta candeggiata “Orgel”, tavolini triangolari ad incastro, quadri, piante finte.
Piante colorate, vasi per piantine grasse.
Pupazzi, peluche, giocattoli.
Per questo compro sempre una secchiata di cazzate ogni volta che entro in un magazzino Ikea.
 
E ancora: polpette scandinave surgelate. Tè grigio alla frutta e cannella svedese. Salmone affumicato.
Biscotti al cioccolato. Salsa con panna e mirtilli.
Cercavo la salsa di tonno e asparagi, ma era finita.
Amavo tanto la salsa di asparagi e tonno.
Oh, quanto la amavo.
Quando il più delle volte mi ritrovavo con Sonny a scambiare due chiacchiere, mi piaceva spalmare la mia salsa di asparagi e tonno svedese su grandi fette di pane caldo.
Riscalda il pane al micro-onde, poi la salsa al tonno e con un grande coltello spalmala su tutta la superficie del pane.
La crosta che si forma scaldando il pane con il programma “Grill” del micro-onde è piuttosto dura. Non mangiarla. Dammi retta.
E’ così che ti ritrovi immischiato in file lunghe, interminabili, durante le quali incontri vecchiette che ti chiedono quale colore preferiresti per le tende in sala da pranzo, considerando il divano Klippard ricamato in blu e turchese Granan appena comprato.
E’ così che ti ritrovi da Ikea.
Nei grandi magazzini Ikea potevi trovare veramente di tutto.
Le famiglie moderne, invece, trovano un po di pace. Si, si ritrovano, tutti insieme, la domenica mattina o il sabato pomeriggio, verso le quattro.
Ho visto famigliole felici passare la giornata intera dentro al centro commerciale Ikea mangiando alla tavola calda e intrattenendo i propri figli dentro gli spazi ricreativi per bambini.
Oh, è una bella cosa, no?
Le famiglie moderne ritrovano se stesse grazie ad Ikea.
Invece a me capitò di trovare Sonny. Lo trovai tra gli scaffali, dove la fila si intensificava, tra le lampade in carta candeggiata e quelle in ceramica con candele e rifiniture madreperla.
Era lì, solo, seduto sul banchetto dell’Unicef, aspettando qualcuno che lo prendesse con se.
Sorrideva, spensierato.
Aspettando qualcuno che gli chiedesse come stava. Perché era lì, perché era solo.
Lo presi con me.
Mi fece molta tenerezza questo Sonny. In realtà il suo vero nome non me lo disse mai.
Glielo chiesi quel giorno nel grande magazzino, mentre andavamo via, verso la macchina, con il carrello pieno di cianfrusaglie. Avevo comprato anche le polpette in salsa di panna, per l’occasione.
Non parlò. Non disse nemmeno una parola.
Sonny era un tipo di poche parole. Non parlava mai. Potevi chiedergli qualsiasi cosa, lui non avrebbe risposto.
Sorrideva.
Infatti le nostre chiacchierate finivano sempre con io che raccontavo i miei cazzi a Sonny e Sonny che ascoltava con dedizione e Sonny che sorrideva e Sonny che non diceva mai una parola.
Si, non so perché ma sorrideva sempre. L’ho già detto, non è vero?
Sonny era un tipo quieto, giocoso. Poco affettuoso, se vogliamo.
Lo portai con me in casa mia, lo accudii. Mai un grazie, un arrivederci.
Sonny non usciva mai. Quando rientravo dentro casa, lo trovavo seduto sul mio divano letto modello Helmnes rosso porpora con coordinato trapunta e cuscino Vinter-bar. Lo trovavo seduto comodo mentre guardava la televisione. Quando uscivo lo mettevo davanti alla tv e l’accendevo e la sintonizzavo sul canale musicale. Gli piaceva tanto il canale musicale, sembrava sorridesse di più.
Oh, quanto gli piaceva quel cazzo di canale musicale.
Non si spostava mai dal divano. Mai.
Non sapevo niente di lui.
Non mi disse mai niente.
<<Non fare domande inopportune, vedrai, arriverà il momento in cui di sua spontanea volontà darà ogni risposta>> dissi a me stesso.
Non era nemmeno costoso mantenerlo, dato che mangiava molto poco. Anzi in mia presenza non mangiava mai. Penso che mangi la notte, mentre dormo, perché non l’ho mai visto mangiare.
Sonny era un tipo piuttosto pulito. Pulito, la sua stanza era sempre in ordine, mai un oggetto fuori posto.
Non aveva molti amici. Non riceveva mai telefonate. Nemmeno una visita.
Probabilmente nessuno sapeva che era venuto a vivere da me.
Poi, un giorno non molto lontano, ritornato da una noiosa e faticosa giornata di lavoro, io e Sonny litigammo.
Non avevamo mai litigato. Non che le nostre conversazioni fossero tali da poter litigare. Non diceva mai una cazzo di parola.
Rientrai in casa e lo trovai come tutti i giorni sul divano, davanti al televisore. Guardava il suo programma preferito, “Rock Is Dead”, sulla sua emittente musicale preferita.
Io tornai stressato, arrabbiato.
Lui invece sorrideva come sempre. <<Ciao Sonny!>> e mi sorrise.
Sorrideva sempre.
<<Non è una bella giornata. Oggi, al lavoro, è andato tutto un disastro. Ho sbagliato indirizzo di una delle spedizioni e si è persa una cazzo di lettera.>>
Gli dissi che ci avevano fatto causa. Che probabilmente perderò il posto.
<<Ma che cazzo hai sempre da ridere?>> gli chiesi spazientito.
<<E’ una giornataccia, quindi levati quel sorriso del cazzo!>>
Ma lui continuò a sorridere.
Sorrideva.
Trasmettevano “Lucky You” dei Deftones, sul programma preferito di Sonny, “Rock Is Dead”.
Io diventai imbestialito. Presi Sonny per una delle sue braccia esili e lo sbattei contro il muro.
Pareva non gli importasse molto. Era abituato.
Allora preso da un momento di rabbia furente, cominciai a dargli calci sullo stomaco.
Ancora, e ancora. Ripetutamente.
Oh, quanto mi piaceva.
Ma lui non si scompose.
Rimase lì, con i suoi occhi piccoli come bottoni, e il suo sorrisino del cazzo.
Quanto odiavo quel sorriso.
<<Se non la smetti ti prendo a bastonate, quanto è vero Iddio!!!>>.
Mi allontanai dalla stanza, in cerca dei un po di calma, del mio angolino Zen.
Sonny non c’entrava niente con il mio lavoro, eppure nel prenderlo a calci, nel gonfiarlo e calciarlo contro il muro, ripetutamente, provai una strana sensazione. Una strana calma, una calma nel cuore.
Presi un pennarello, e mi cominciai a scrivere sulle mani delle piccole R con un asterisco (R*), era il mio modo per sfogarmi.
Solitamente mi dava sollievo.
Ora tutto sembrava cambiare. L’inchiostro mi infastidiva la cute e mi cominciai a grattare
Mi grattai con forza.
Poi tornai in salotto per vedere come stava Sonny.
Era di nuovo sul divano, davanti alla tv, mentre il suo programma preferito mandava in onda “A Cure”, dei Blonde Redhead.
E con il suo solito sorriso imperante, mi guardava.
<<Senti brutto stronzetto, non so a che cazzo di gioco perverso stai giocando, ma levati quel sorriso del cazzo dalla bocca. Non lo sopporto>>
Quel sorriso mi trasformava in una bestia feroce.
Sorrideva a tutti. Gli potevi far di tutto.
Lui avrebbe continuato a sorridere.
Urlai contro Sonny, lo maledii. Presi tutto quello che mi capitò per le mani e lo lanciai, urlando, lo lanciai contro sonny.
Allora gli colorai il volto con il pennarello nero che avevo in mano, cercando di disegnare una bocca triste sopra la sua. Disegnai una mezza luna con violenza, tenendolo fermo per le mani.
Stranamente non si dibatté, non cercò di scappare.
La sua sola preoccupazione era quella di sorridere al mondo intero, qualunque catastrofe o ecatombe o genocidio di massa o qualunque cosa potesse accadere in quel momento.
Cominciai a provar paura. Più lo guardavo e più sembrava sorridere. Non avrei sopportato ancora un secondo di più quel sorriso stridulo e malvagio.
Sembrava gli piacesse a quello strippato del cazzo.
I segni neri con il pennarello non ebbero gli effetti che desideravo, anzi.
Potevo vedere i segni sul mio braccio dovuti al prurito. Grattandomi avevo quasi scorticato una parte del mio avambraccio.
Il sangue colava su tutto il pavimento.
Divertito.
Sonny era divertito.
Oh, sorrideva.
Lo presi per una mano, e lo colpii sul volto cercando di togliergli quel fottuto sorriso.
Per Sonny sarebbe diventata una missione, quella di sorridere a tutti.
Più io lo picchiavo e più lui sorrideva. La paura mi travolse.
Pensai fosse indemoniato. Posseduto. Mi allontanai di corsa.
Dovevo liberare il mondo da questo demone. Forse non ero stato neanche il primo.
Forse non fu un caso che lo trovai da solo, tra gli scaffali.
Presi il cavo del telefono, lo sradicai dal muro e lo strinsi intorno al collo di Sonny.
<<Ora ti faccio ridere io, fottuto stronzo.>>
Lo legai alla maniglia della porta, e lo lasciai penzolare, con un cappio al collo.
Con il cavo del telefono attorcigliato intorno al collo, che stringeva e stringeva, Sonny sorrideva al suo sicario.
Penzolava, come in una forca.
Brucia demone. Brucia.
Io ero il boia, io ero il suo assassino. Lui il condannato.
Ma sorrideva.
Che schifo di morte, pensai, morire per colpa di un cavo del telefono.
Va beh, il grosso era stato fatto… mi sentivo meglio. Gli avevo dato quello che si meritava, ne ero certo.
Ora ridi pure quanto ti pare.
Poi avvenne il cambio di scena.
Svenni e rinvenii subito dopo, come colto da un malessere improvviso.
Quando ripresi conoscenza, Sonny era ancora lì, con il cavo del telefono al collo, appeso come un ladro.
Ed ogni giorno che passa, quando la mattina mi sveglio e quando torno a casa dal lavoro, Sonny è ancora lì, penzolante, con un cappio intorno al suo fottutissimo collo.

Sonny è ancora appeso, con i suoi occhietti piccoli fatti con i bottoni, con le sue braccia esili di pezza attaccate al piccolo corpo, spoglio. E’ ancora lì, che persegue il suo intento di portare la pace nel mondo sorridendo a tutti.Lo trovai su di un banchetto dell’Unicef, lo pagai soltanto un euro e novantanove centesimi.
Volevo aiutare il mondo.
Muori soffocato, stronzo. Muori.

Da quel giorno sogno Sonny tutte le notti. 

 

 

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One Response to Sonnyboy – Narrativa distrattiva. Prima esibizione.

  1. ziomn says:

    forse ci siamo

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