Fear and paranoia in somewhere.

Tante cose mi sono oscure nella vita, forse addirittura troppe.
Ci sono momenti in cui vorrei tornare indietro, ma quei momenti sono decisamente pochi e di breve durata.
Altri che mi commuovono con facilità.
Altri, come quando metto in spalla lo zaino grande per cambiare posto, città, persone, beh questi mi fanno sentire libero, libero come mai non mi sono sentito in tutta la mia cazzo di vita.
Comincio a scoprire nuovi segreti e misteri del viaggiare. Sembra incredibile, ma il mondo è piccolo, e pieno di gente veramente fantastica. Ci sono persone che sono pronte ad ospitarti per una notte o a darti una mano se ne hai bisogno in ogni dove, anche nelle città più piccole, o nei luoghi che definiresti impensabili.
C’è gente che non lo diresti mai, ma si sbatterebbe per te e andrebbe fin in capo al mondo.
Voglio raccontarvi una storiella divertente. 

Stavo ad Amsterdam con una scatola di funghi Golden Teacher comprata due giorni prima. Dopo aver conosciuto due ragazzi in un ostello siamo usciti per prenderci una birra e fare quattro chiacchiere, giusto per non avvilirci nella cappa da weed che c’era nell’ostello, quando proposi ad entrambi di dividerci la mia scatola di funghi, a gratis, non volevo niente, volevo solo riuscire a prendere i funghi con qualcuno che gli andasse.
Credo che ne presi troppi, forse più della metà della scatola, mentre loro si divisero il rimanente…
Mai, dico mai, andare in giro per Amsterdam fatti di funghi very strong, di notte, la stessa notte che l’olanda si qualifica per i quarti di finale e la città diventa un aggregato di ubriachi, drogati, pusher, papponi e quant’altro.
Amsterdam non è la città adatta per le droghe psichedeliche, ma per me era la prima volta, e non avevo idea a cosa andavo incontro.
Troppo. Troppe luci, troppi colori, troppi suoni, troppa gente. Troppe facce losche, troppi pensieri per la testa.
La prima fase del viaggio fu divertente, cominciai a scoprire il mio corpo molto più leggero, vellutato.
Ero meravigliato da tutto, dai colori, dalle luci, dalle vetrine, ma la percezione della realtà era la stessa di prima.
Camminavamo lenti, senza dire neanche una parola, guardando, osservando, meravigliandoci di ogni cazzata che incontravamo. Come bambini.
Poi entrammo nel quartiere a luci rosse, e cominciò la seconda fase.
Ero un pò stordito, i funghi erano in pieno circolo.
Ero meravigliato e a volte spaventato dalla realtà che mi circondava. Non riuscivo a camminare per dritto, tenere in mano oggetti, non sentivo il senso del tatto. La mia temperatura era decisamente salita, sudavo.
Fissavo a lungo oggetti scemi, facemmo il giro delle ragazze mezze nude da vetrina almeno tre volte. Pian piano la meraviglia si stava trasformando in paura.
Non ero veramente spaventato, ma uno stato di allerta permanente vigeva su di me, mi guardavo intorno, tutti erano nemici, nessuno sarebbe stato mio amico.
Non potevo dire più di qualche parola per intero, ero un poco ansioso, seccato.
Andavo avanti, camminavo e mi fermavo. Gesticolavo con le mani, poi qualche smorfia.
Smorfie, e ancora occhi a punta.
Guardavo e sobbalzavo, mi fermavo. Intanto nella passeggiata a luci rosse si era formata la fila, dietro di me.
Mi dicevano muoviti, sbrigati, che cazzo fai!
Mi mettevo di lato, stordito e un pò sorpreso. Guardavo e fissavo le persone per giorni, mesi per me, le osservavo passare, ignare di ciò che  mi stesse accadendo.
Credo che affrontare una sostanza così particolare in un luogo così obsoleto, senza altri fattoni, senza la musica ripetitiva, all’aria aperta e non dentro stanze chiuse e abbandonate, sia più di quanto scemo abbia mai fatto.
A questo punto ebbi la consapevolezza di essere un pericolo, e di essere in pericolo.
La gente di fronte di lato e di fianco mi guardavano stupite, a volte impaurite, anche incuriosite.
Non avrebbero potuto capire, quei lucidoni da venerdì sera in calzamaglia e taglier.
Consapevole.
Ero consapevole che la gente sarebbe stata impaurita dalla mia persona, dai miei comportamenti, schifata.
Pericolo.
Sapevo anche di essere in pericolo. Non ero ingrado di poter gestire nessuna condizione particolare di alcun genere.
Abusate di me.
Rubatemi i miei soldi, la mia carta di identità, i pochi averi che ho.
Tagliatemi in due, rubatemi i polmoni e sostituiteli con delle branchie… al massimo posso andare su Chi l’ha Visto.
A questo punto iniziò la terza fase: la Paranoia.
Questa la fase peggiore.
Provai a spiegare in inglese ad uno edi miei amici le mie paranoie (ma non ero consapevole che erano paranoie), riuscivo a malapena a ricordare qualche parola in inglese.
La paranoia totale mi portò fin sotto alla porta del mio ostello per posare ogni oggetto che potesse avere alcun tipo di valore, e ricominciare a vagare in giro per la città sotto l’effetto delle droghe psichedeliche.
Mi guardavo intorno, stordito. Cercavo un modo per dialogare, comunicare. Mi esprimevo a facce e versi. Gesti.
Ogni tanto ricordavo la missione: tornare in ostello per posare tutto.
Allora dritto come una spada, camminavo, acceleravo, poi mi guardavo intorno e mi riperdevo.
Dov’ero?  Che cazzo ci facevo lì  in mezzo al marciapiede davanti alla vetrina dei Lego?
Oddio, l’ostello ora ricordo.
Frammenti dei momenti passati a volte mi tornano in mente, a volte scopro ancora qualcosa di nuovo.
Eccolo, l’ostello, siamo arrivati.
Che ci faccio in ostello? ah, si, posiamo tutto.
Le chiavi, prendi le chiavi. La  porta non si apre. Sveglierò tutti, è l’una di notte. Sali le scale.
Le  scale ripide, diocane che cazzo di scale di merda. Su, una alla volta si allontanavano dai miei piedi.
Credevo non finissero mai.
Poi la seconda porta. Non si apre. Prova e riprova. Da dentro qualche angelo mi apre.
Cerca il tuo letto, cerca il tuo armadio.
Tira i dadi, fai tre passi avanti, probabilità. Tira di nuovo i dadi, fai un passo indietro, prigione.
Ora mancava solo la terza ed ultima sfida, al buio, indifeso, pensieroso del fatto che una volta trovata l’entrata non sarebbe stato facile trovare l’uscita.
Apri l’armadietto, posa tutto, e fai attenzione a no far cadere nulla.
Ora assicurati che sia chiuso.
Fai otto passi in avanti, imprevisti. Dov’è la porta d’uscita? Leggi la carta, forse ti dice qualcosa.
Torna al via, esci, esci, scappa da quell’incubo chiamato buio.
Allora con grande velocità scesi le scale. Lunghe, ma stavolta potevo vedere l’uscita…
Tornai davanti alla piazzetta dell’ostello, dove ci eravamo dati appuntamento con gli altri.
Ma a quel punto incontrammo dei ragazzi con cui avevo fatto due chiacchiere il pomeriggio.
Ciao ragazzi.
Sono sotto funghi, quindi, scusate. Hai una quinta di seno con una vita a quaranta, com’è possibile?
Se ti tocco, scusami, ma mi sembra troppo morbido per farne a meno.
Paranoie.
Inutile dire che le mie paranoie aumentarono, sentivo tutti distanti metri e metri.
Cercavano di tranquillizzare la situazione con l’effetto di peggiorarla, con l’unico risvolto che capii di essere in una fase paranoica. La paranoia si era impadronita di me, ero il suo servo, lei la mia regina.
La paranoia di essere in paranoia, paranoia di paranoia di paranoia. Credo che peggio non vi possa capitare.
Le paranoie mi portarono a pensare che non sarei potuto stare con nessuno altro, ma nemmeno che sarei potuto stare da solo, perchè ero un pericolo per me e per gli altri.
Cercavo di isolarmi, ma non riuscii. Cercavo qualcuno che mi potesse capire. Cercavo qualcosa che mi potesse assomigliare. Pensai che forse l’effetto delle sostanze sarebbe finito prima di trasformarsi in un lupo mannaro.
La peggiore paranoia fu quella di sentirsi un peso per tutti quei ragazzi che stavano lì ubriachi come spugne e che dovevano subirsi sto morto sulle spalle.
Camminammo.
Una breve passeggiata, e il tentativo di spiegare a tutti con grugniti e versi che stavo in paranoia.
Arrivò la quarta fase: paura e consapevolezza, consapevolezza della paranoia.
Stavo affrontando una fase cruciale, tipo da paura e delirio a las vegas, stavo vivendo un incubo.
Sapevo che non ero in pericolo, nè che non sarei stato un pericolo per nessuno, al massimo qualche brutta figuraccia, ma che io mi sentivo tale. Ed ero un peso.
L’unica scelta saggia da fare sarebbe stata quella di fermare il trip mangiando qualcosa.
Su se non fermi il viaggio questo prosegue. Ne hai presi troppi, amico, troppi. Puoi andare avanti così per ore e ore, senza che tu te ne accorga.
Bastarono quattro patatine fritte e mezza bottiglia d’acqua per fermare il trip, e ricominciare a parlare come un essere umano dotato della facoltà d’espressione.
Mi appoggiai ad una colonna e mi rilassai per qualche minuto. E’ strano come se con le persone che ti stanno vicino ti senti distante, distratto, astratto, con gli oggetti riesci a raggiungere un’intimità unica.
Mi sentivo una colonna, un tutt’uno con la colonna, un capitello, o una base, che ne so.
Intanto le percezioni della realtà cominciavano a farsi più vive, tornando ciò che erano prima della paranoia, solo luci, ombre, suoni, e gente che cerca di divertirsi nei modi più desueti.
Il viaggio era finito, e a me rimaneva solo la stanchezza di aver camminato per 4 ore e mezza di fila senza fermarmi. Stordito.

A conti fatti posso dire di essermi divertito un mondo, ma che mai e poi mai credo che ripeterò  un’esperienza del genere. E’ troppo irresponsabile prendersi dei funghi e girare per la città con la testa aggrovigliata in pensieri e sensazioni in contro fase, non poter attraversare la strada e fermare il traffico, spaventare gente con versi e pose da film dell’orrore, farsi prendere dalla paura e dalla paranoia in una città come Amsterdam.
E’ decisamente troppo.

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