di WuMing1
Sapete quale sarà uno dei problemi? Il fatto che molti di quelli che erano in piazza oggi, e quindi non hanno visto com’è stata “incorniciata” e narrata la giornata, torneranno carichi di adrenalina e si scontreranno con le perplessità di chi invece ha visto la cosa da fuori, dalla distanza. Ne nasceranno forti incomprensioni, e anche scazzi. Chi ha vissuto per ore un momento di “fusione”, correndo insieme a tanti altri, difendendosi insieme a tanti altri, e prova la soddisfazione di esserne uscito incolume, pensa a quel momento come a un “universale”, a qualcosa che lo connette a una comunità molto più ampia. E sotto un certo aspetto ha ragione. Tuttavia, questo è anche un limite, perché costui o costei, avendo una percezione tutta “dall’interno” e *inclusiva*, faticherà a rendersi conto di molte cose.
Ad esempio, del fatto che, al contrario, una dinamica come quella odierna può essere fortemente *escludente*, perché taglia fuori chiunque vorrebbe andare in piazza ma non è in grado di sostenere quel livello e quindi non vuole rischiare di finire in mezzo a certe scene: genitori con bambini, persone più attempate, disabili, soggetti ricattabili (come molti migranti), o anche persone che hanno motivi di lottare ma sono lontane da un immaginario da riot o da jacquerie… Con buona pace delle necessità di ricomporre la classe, di superare le guerre tra poveri e il “divide et impera” capitalistico. Badate che non è affatto una questione di “violenza”, perché anche nelle mobilitazioni “policentriche” delle settimane scorse si è fatto uso della forza e ci si è scontrati con la polizia.
Ma, guardacaso, dopo quegli episodi c’è stata pochissima condanna morale, se non da parte di chi condanna sempre e comunque. La parte di società a cui il movimento si rivolgeva ha capito benissimo che erano “solo scontri”, cioè cose che succedono, non feticismo dello scontro-per-lo-scontro. L’uso della forza conviveva già alla prima occhiata con tanti altri elementi, con forme di lotta fantasiose e ispiranti, con una freschezza d’approccio che tutti abbiamo elogiato. Quindi quella “violenza” NON era escludente. E infatti molti settori di società hanno iniziato ad avvicinarsi al movimento degli studenti. Tanto che qualche sera fa, alla presentazione bolognese del libro di Loredana Lipperini “Non è un paese per vecchie”, diverse persone hanno detto che le lotte degli studenti potevano essere un processo di avvicinamento tra diverse generazioni, e contribuire a superare quel risentimento a cui ci ha abituati il discorso dominante: figli precari contro padri “garantiti”, lavoratori attivi contro pensionati etc. etc. etc.
Oggi abbiamo assistito a un’altra cosa, più pericolosa, più foriera di scazzi e fraintendimenti a valanga, più produttiva di prese di distanza, e secondo me è stata la conseguenza inevitabile della credenza nella Battaglia Campale Nazionale. Noi siamo un paese meno centralista della Gran Bretagna, non è obbligatorio che ogni conflitto cerchi sempre la stessa via maestra, la spinta che ineluttabilmente lo incanali verso Roma (e per “Roma” non intendo necessariamente la città; anche Genova era “Roma”). Come chi tornò da Genova dieci anni fa, chi torna da Roma oggi è un/a “reduce”, e ogni reduce, tornando dal fronte, trova incomprensioni. A ben vedere, questa verrà agitata come la “separazione primaria”: tra chi non c’era (e quindi “non può capire” o, peggio, non vuole) e chi c’era (e quindi “ha sbagliato”, si è lasciato trascinare etc.) Come si può impostare, nei prossimi giorni, un discorso che eviti questa contrapposizione, che per me sarà quasi automatica?
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